Fluire Secondo Corrente

L’Acqua che scorre non ristagna, i cardini della porta non sono infestati dai vermi. Se non ci si muove, Jing e Qi ristagnano
Scorrere lungo il flusso è un concetto caro al taoismo antico e non solo a quello, pensiamo ad esempio al “panta rei” (tutto scorre) di Eraclito.
Ma cosa vuole davvero dire che tutto scorre? Apparentemente è un concetto molto semplice: si tratta di non opporre resistenza, di non creare Ni Qi, Qi controcorrente, si tratta di sapere verso dove le cose scorrono e lasciare che questo accada.
L’immediata obiezione è che le cose a volte non scorrono dove e come dovrebbero, che a volte il Ni Qi è negli eventi e non dentro di noi. Una guerra che scoppia, un incidente, una morte imprevista e prematura o una violenza appaiono ai nostri occhi come qualcosa contro corrente e contro natura. E se invece li consideriamo parte della natura e del normale fluire degli eventi siamo inorriditi: come può la natura, o Dio se preferiamo, volere che ci siano violenza, dolore e morte?
Ogni filosofia e religione ha cercato e cerca di dare una qualche risposta a questo interrogativo angoscioso e disperato. Anche se escludiamo l’uomo e i danni che fa e guardiamo alla natura dove lui è assente, non vi troviamo certo quello che vorremmo. Ci scandalizziamo giustamente per gli uomini che uccidono i cuccioli di foca per ricavare pellicce bianche; ma l’orso bianco li divora a morsi mentre sono ancora vivi imbrattando di sangue la sua candida pelliccia. Siamo contro la guerra, ma la natura a volte è tutta una guerra: una pianta per crescere ne soffoca delle altre, ci sono siccità e alluvioni, terremoti e vulcani che eruttano lava.
Cosa vuol dire allora scorrere secondo il flusso senza creare ostacoli?
La pri
ma cosa è astenersi dal giudizio e dal senso di
onnipotenza che spesso pervade l’uomo, spesso mascherato da altruismo e amore. Non siamo ne i creatori ne i controllori dell’Universo. L’Universo è al di là della nostra possibilità di comprensione, al di là delle nostre possibilità. Non siamo qui per giudicare l’universo, ne per cambiarlo o migliorarlo, siamo qui per conoscerlo, ma soprattutto per viverci dentro. Questo è quello che ci è stato offerto. Questo è anche l’atto di umiltà che siamo invitati, o forzati, a compiere. Siamo tutti affamati di conoscenza e la vita ci da l’opportunità di soddisfare almeno in parte questa fame. E quando si è affamati non si questiona troppo se avremmo potuto aver servito un pasto differente e come è stato cucinato e perché è di sole due portate o forse di troppe portate. Quando siamo affamati e ci viene servito un pasto mangiamo.
Tutte le filosofie e religioni, perlomeno ad un certo livello, si focalizzano sul riconoscere le cose piuttosto che sul definirle e “aggiustarle”, raddrizzarle. In tutte queste dottrine vi è l’idea dell’accettazione del nostro destino, l’accettazione del volere di Dio, l’accettazione della natura, e così via. Quando anche si parla di comprendere come l’universo funziona non si accenna mai all’idea di modificarlo, ma di accettarlo.
Un figlio si droga, un’amica è stata violentata, un fratello muore in guerra; cosa vuol dire accettare questo? Accettare ci sembra mostruoso, ci sembra la negazione della vita stessa, anzi ci sembra che la vita sia la negazione della vita. Sperimentiamo un senso di impotenza; ma avevamo davvero bisogno di un segno così forte per pensare di essere impotenti di fronte alla vita? Non ci è bastato sapere di avere fame e di dover mangiare tutti i giorni, di soffrire il freddo d’inverno e il caldo d’estate, di ammalarci e non essere in grado nemmeno di stare in piedi, di essere in preda all’angoscia o alla depressione?
Il più impotente e vulnerabile di tutti gli esseri è il cucciolo, il neonato; e che cosa fa si che si mantenga in vita e possa crescere? Il neonato ha una capacità di accettazione che è quasi totale, anche di quello che non gli piace per niente; protesta ma non si ribella, non crea Ni Qi. Ha fame e piange, esprime quello che ha dentro, non per cambiare ciò che c’è fuori ma per esprimere ciò che ha dentro; e spesso la vita lo accoglie. Ovviamente sappiamo che non è sempre così: molti cuccioli muoiono divorati, alcuni bimbi sono devastati da malattie mortali o invalidità permanenti.
Il cucciolo non vuole morire, ma accetta la possibilità di morire; il bambino non vuole aver fame o dolori addominali, ma li riconosce come parte del processo di vivere. Sa, ad un livello profondo di consapevolezza, che non accettare non lo porterà ad evitare ciò che sta accettando.
La vita scorre non grazie a noi, ma spesso nonostante noi. A volte proviamo un dolore così profondo che pare che la vita si fermi, almeno per noi, sentiamo che vivere non ha più senso; eppure poi qualcosa accade e procediamo, faticosamente, dolorosamente procediamo; non sappiamo verso cosa stiamo procedendo, ma procediamo.
In fin dei conti non c’è bisogno di guardare all’Universo per rimanere stupiti di come tutto proceda comunque, basta guardare in noi stessi: come procediamo nella malattia, nella salute, nella preoccupazione o nella gioia.
In fin dei conti vorremmo che la vita fosse un paradiso, anzi non capiamo perché non possa essere un paradiso. Ma la vita non è un paradiso, è un campo di battaglia, è un sfida che logora e consuma, tant’è che alla fine tutti ne moriamo; nessuno esce vivo dalla vita. Ma se davvero uscissimo illesi dalla vita, avremmo davvero vissuto? Non si può giocare una partita di rugby senza ammaccarsi e infangarsi; non pi può nuotare senza bagnarsi; non si può vivere senza sciuparsi.
Questo certo non spiega perché certe partite debbano essere così dure e disperate e altre relativamente “leggere”. Ma forse il punto cruciale è che non siamo qui per capire, ma per vivere. Ed è solo vivendo che potremo arrivare ad una comprensione e ad una consapevolezza più vasta; non come parte di un processo mentale di giudizio secondo i nostri parametri umani, ma di apertura verso le risorse infinite dell’Infinito.