Siamo tutti in gabbia


Viviamo tutti in gabbia. In questo periodo così particolare in cui sperimentiamo per la prima volta nella nostra vita il confinamento fisico, la restrizione alla nostra libertà di muoverci, agire e creare, abbiamo un’occasione unica per confrontarci con il nostro senso interno di costrizione e limitazione. L’ingabbiamento fisico che ci è stato imposto dall’esterno ci può portare a riflettere su un altro tipo di ingabbiamento che coltiviamo dentro.
Possiamo ad esempio osservare i nostri schemi di comportamento, le nostre abitudini, non più velate o nascoste dal nostro agire esterno. Se siamo in un nucleo famigliare possiamo osservare con maggior lucidità gli schemi di risposta di ognuno, ma soprattutto i nostri. Se invece ci troviamo ad essere soli tutto questo diviene ancora più forte: ogni cosa che accade in noi è stimolata da noi. A volte riusciamo, da soli, a litigare con noi stessi, a dividerci in due personalità con una che agisce in un certo modo e l’altra che disapprova e critica. Non potendo litigare con altri litighiamo con noi stessi. Ma anche se abbiamo attorno qualcuno con cui polemizzare, nella situazione che viviamo di confinamento il gioco dura poco e più facilmente ci rendiamo conto di cosa stiamo muovendo e di cosa stiamo bloccando.
In particolare ci rendiamo conto degli schemi abitudinari che riproponiamo a noi stessi (o a chi ci sta attorno), semplicemente perché sono quelli che abbiamo imparato ad usare nel tempo, quelli a cui ci siamo in qualche modo affezionati.
Magari siamo in coppia e vediamo il nostro modo di vivere la sessualità che ripete meccanismi che forse non riflettono più quello che sentiamo di essere, ma sono una sorta di fare automatico. Ma anche tutti i gesti quotidiani che ci rapportano agli altri possono essere visti nella loro componente di abitudine senza una reale motivazione.
E se siamo soli possiamo ancora meglio osservare abitudini di comportamento che non sono più giustificate da nessuna esigenza di movimento verso il mondo; eppure non riusciamo a cambiarle.
Ci rendiamo così conto di quanto siamo abitudinari; di quanto abbiamo bisogno di schemi definiti in cui muoverci per sentirci a nostro agio.
In un momento in cui non ci viene richiesto di fare quasi nulla (o meglio ci viene impedito di fare quasi tutto), la gabbia delle nostre abitudini auto imposte diviene più evidente. Forse ci eravamo detti in passato che avremmo voluto aver tempo libero per studiare, o per meditare, o per dipingere o qualsiasi altra cosa. E adesso abbiamo quel tempo ma non lo usiamo per fare queste cose. Forse ci eravamo detti che avremmo voluto avere più tempo per stare in famiglia e ora che ci siamo ci manca il respiro, forse avevamo detto di voler poter finalmente stare fermi e non dover correre e ora che siamo fermi vorremmo poter correre.
E se proviamo ad agire il cambiamento ci prende un senso di soffocamento, di ansia, di nervosismo che deve trovare una via di sfogo. Ci stiamo confrontando con dei fantasmi del passato, con delle modalità che forse non sono più nostre ma che continuano ad ingabbiarci a costringerci in modalità di comportamento e di risposta codificate e sclerotizzate.
E poi forse osiamo cambiare qualcosa e ci prende paura, paura di abbandonare il conosciuto, il limitato, paura delle possibilità che ci si aprono davanti e allora cerchiamo disperatamente di riaggrapparci a quelle certezze, anche se magari tristi o ansiose, a cui ci eravamo abituati.
Cambiare è la cosa più facile da dire e la più difficile da fare.
Abbiamo paura di perdere qualcosa, anche se quel qualcosa è orribile. Non vogliamo perdere la nostra ansia, non vogliamo perdere la nostra collera, non vogliamo perdere il nostro dolore all’anca, perché sono parti di noi, perché sono noi. E ovviamente non è vero, ma allora perché non riusciamo a cambiarle, a lasciarle andare?
Ci vuole coraggio, e accettare che lo spazio vuoto che si crea non è da subito uno spazio di libertà, ma piuttosto un abisso in cui abbiamo paura di precipitare. O meglio lo spazio vuoto che si crea è, proprio in quanto vuoto, quello che noi vogliamo che sia: abisso in cui precipitare o vetta da cui poter volare.