Un posto chiamato casa

casaNello sviluppo del bambino, il primo anno di vita è caratterizzato da un’unione simbiotica con la madre. Il bimbo dipende in tutto e per tutto dalla madre, che d’altro canto è la fonte di soddisfazione di ogni suo bisogno: ha fame ed è nutrito, ha freddo ed è coperto, evacua e viene cambiato. La madre è una sorta di divinità in grado di nutrire, consolare e supportare; in grado di risolvere ogni difficoltà, di dare sempre e comunque conforto e sostegno. Poi, con il raggiungimento del primo anno di vita circa, il bambino inizia un processo di individualizzazione: si alza in piedi ed inizia a camminare, nel frattempo sviluppa anche i denti che gli consentono di “masticare il mondo” piuttosto che di succhiarlo così come avveniva durante la fase di lattazione. Inizia un processo di individualizzazione che è inevitabilmente anche un processo di separazione. Il bambino inizia a muoversi nel mondo, e muovendosi nel mondo deve iniziare a compiere delle scelte, perché muoversi vuol sempre dire scegliere. E’ iniziato un cammino che si svilupperà durante l’intero arco della vita, consentendogli di portare a compimento il proprio destino individuale, la propria missione in questa vita.

Se però osserviamo il comportamento del bambino che si allontana dalle figure genitoriali per esprimere la sua individualità, possiamo notare che spesso si volta indietro, come ad avere una rassicurazione che pur allontanandosi dal luogo di origine e conforto questo continui ad essere presente e vibrante. Il bambino che inizia a camminare e ad allontanarsi si volge continuamente a guardare indietro, a cercare la madre o il genitore. Si muove avanti guardando cosa c’è dietro, verificando che la figura di sostegno sia ancora là, presente e pronta a supportarlo.Gradualmente i suoi spostamenti lontano da casa si amplificano, in senso fisico e figurato; ma rimane sempre il bisogno di sentire che dietro di lui c’è un luogo chiamato casa a cui poter fare ritorno, un luogo che sia di accoglienza incondizionata. Perché ogni vita è un viaggio per scoprire quello che ancora di noi non sappiamo e capire quello che ancora non abbiamo capito, ma il senso del viaggio è poi di fare ritorno, di tornare nella profondità del nostro sé, nella nostra essenza che è unità, quella unità da cui ci siamo separati con il processo della nascita.

Fare ritorno a casa è il grande tema di tanti miti e leggende, primo fra tutti per la nostra cultura quello di Ulisse. Ma cosa vuol dire fare ritorno a casa? E cosa possiamo intendere per casa? Nello sviluppo del bimbo casa è luogo fisico in cui trovarsi e stare, ed anche luogo emotivo di supporto e crescita personale grazie alla presenza e sostegno dei genitori. Nell’adulto poi diviene la capacità di abitare una propria casa, diversa da quella dei genitori, o a volte in aggiunta a quella di famiglia che resta come un riferimento nel tempo: un luogo in cui poter tornare sentendosi connessi con le proprie origini, con i propri avi, con le proprie radici.

Ma casa non è necessariamente un luogo fisico e può allora divenire uno spazio interiore, una casa dell’Anima, un santuario di pace che possiamo trovare in noi stessi a prescindere dalle condizioni esterne. Casa diviene allora la nostra capacità di connetterci con la nostra origine, con la nostra unità più profonda, senza necessariamente il bisogno di una struttura fisica che la rappresenti. Quando ci raccogliamo in meditazione spesso quello che facciamo è un viaggio come quello di Ulisse, che passa per difficoltà, incertezze e a volte anche disperazione, per trovare infine quello spazio interiore di pace e quiete, una condizione di unità e di appartenenza al tutto.

Tornare a casa vuol anche dire deporre la propria individualità; come quando torniamo da adulti nella casa di famiglia e lì non conta quello che negli anni abbiamo conseguito individualmente, non contano i nostri successi e le nostre sconfitte. Ci riuniamo alla famiglia e siamo semplicemente parte di quella famiglia, siamo parte di un tutto che ci nutre e sostiene.

Naturalmente non sempre la famiglia e la casa sono questo posto di pace e supporto; spesso sono anzi il luogo in cui si manifestano tutti i nostri conflitti irrisolti; eppure lo stesso, tranne pochissime eccezioni, tendiamo a fare ritorno alla famiglia, perché in profondità sappiamo che lì c’è qualcosa che può essere nutriente. Anzi spesso è proprio quando la famiglia non ci ha dato il supporto iniziale che ci sentiamo ancora più attaccati a dei luoghi fisici e a delle relazioni che in qualche modo detestiamo ma di cui non possiamo fare a meno.

E’ importante allora chiedersi quanto siamo riusciti ad andare oltre il bisogno fisico di una casa, avendo trovato, almeno in parte, una casa interiore, un luogo dentro di noi in cui possiamo collegarci con l’Universo e sentirci nutriti e accolti. Nella tradizione cinese dei Nove Palazzi, che ha molto a che fare con il compimento del proprio destino individuale, l’ultimo palazzo è proprio la casa. Dopo i tre palazzi legati al sé (salute, ricchezza e abbondanza) e quelli legati al nostro relazionarci con il mondo (relazioni, creatività e viaggi), giungono quelli dei nostri conseguimenti personali (vocazione e saggezza), che esprimono la nostra capacità di realizzare la nostra missione in questa vita; ed ecco che, compiuto questo, abbiamo infine il palazzo “casa”, la possibilità di fare ritorno alla nostra origine, alla condizione di unità e di totalità che avevamo perso venendo al mondo come individui. Ogni vita è davvero allora un viaggio, un allontanarci da casa per scoprire il mondo, e alla fine del viaggio, alla fine della nostra vita, torniamo a casa, alla nostra origine, arricchiti da tutto quello che il viaggio ci ha consentito di scoprire. Ma in realtà ogni giorno è un viaggio, ogni giorno è un’avventura, a volte divertente e serena, a volte drammatica e perfino disperata; ma sempre alla sua fine possiamo trovare, se lo sappiamo, un luogo chiamato casa che ci accolga e sostenga.